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33 - Quali prospettive per la cooperazione?

Postato il 30 Novembre, 2014 da Carlo Borzaga

logoFare oggi previsioni economiche di qualsiasi tipo è davvero un’operazione difficile e rischiosa. E lo è soprattutto se la previsione riguarda una tipologia di impresa, come quella cooperativa, la cui evoluzione è pesantemente influenzata da fattori che inevitabilmente sfuggono al suo controllo. Tuttavia ad una analisi attenta della natura della crisi e di come la situazione economica si sta evolvendo, è almeno possibile tentare alcune considerazioni sui percorsi  prevedibili.

E’ ormai evidente che la crisi ha natura strutturale, non solo per la predita di prodotto e soprattutto di capacità produttiva che essa ha determinato, ma per le difficoltà che incontrano le politiche economiche tradizionali a rilanciare la crescita. I consumi, dopo essere diminuiti in modo significativo, stentano a ripartire mentre aumentano i risparmi, dal che sembra di poter dedurre che è cambiato il modello di consumi e conseguentemente ha perso di incisività una delle più importanti politiche di rilancio della crescita. Ciò non significa tuttavia che tutti i bisogni siano soddisfatti, ma che i beni e i servizi disponibili non sono probabilmente quelli di cui i cittadini avrebbero bisogno o desiderano maggiormente. La contrazione dei consumi è quindi certamente dovuta alla diminuzione o alla stazionarietà dei redditi di ampie fasce della popolazione, ma anche a uno scollamento strutturale tra bisogni e offerta di beni e servizi in grado di soddisfarli. Questa stazionarietà dei consumi a sua volta scoraggia gli investimenti privati e quindi rende poco efficace anche la politica monetaria, già peraltro incerta a seguito delle divergenze tra i paesi che concorrono al processo decisionale all’interno della Banca Centrale Europea. La soluzione potrebbe venire da un rilancio degli investimenti pubblici, ma questo si scontra con gli stretti vincoli in cui è costretta ad operare la finanza pubblica, in Italia e non solo, a seguito sia delle regole europee che alla necessità di tenere sotto controllo il debito pubblico.

Con il paradosso che economie ricche come quelle europee, e in particolare quella italiana, non riescono a trasformare la ricchezza in investimenti e quindi in nuova occupazione.


A ben vedere tuttavia vi sono però anche altri cambiamenti in corso e tra essi uno in particolare, già presente prima della crisi ma che essa ha accentuato e reso più evidente, è costituto dalla tendenza via via più evidente all’adozione di modalità cooperative nella produzione di beni e servizi. Questa tendenza, definita in un libro di Roberta Carlini “l’economia del noi” si sta progressivamente affermando in diversi settori: dai servizi di interesse generale, all’edilizia, alla gestione di case popolari, alla produzione di energie da fonti rinnovabili.  Essa si traduce in diverse forme, più o meno strutturate, di co-produzione, di gestione condivisa, di cittadinanza attiva, ecc. che si propongono di produrre o in modo diverso, più condiviso ed efficiente, beni e servizi già disponibili o beni e servizi la cui produzione è insufficiente o del tutto nuovi.  E’ la risposta “dal basso” all’empasse del modello sociale ed economico “bipolare”. Al punto che si può sostenere, con Elinor Ostrom (non casualmente premiata con il Nobel nel 2009, a meno di una anno dallo scoppio della crisi) che, accanto ai due meccanismi di coordinamento dell’attività degli individui – il mercato o lo scambio a fini di guadagno e l’autorità impersonata dallo Stato nelle sue diverse articolazioni – esiste ormai e si va rafforzando anche un “meccanismo cooperativo” in base al quale consumatori, lavoratori e investitori uniscono volontariamente le loro risorse e le loro abilità per raggiungere un obiettivo comune e decidono di comune accordo su come ripartire costi e benefici, sia immediati che di lungo periodo. Si passa cosi da due a  tre meccanismi di coordinamento dell’azione collettiva, con una netta rivalutazione rispetto al passato di tutte le iniziative basate sulla cooperazione volontaria. Ciò significa che per individuare le modalità più efficienti di gestione di ogni attività che abbia un risvolto di tipo collettivo si dovrebbe – o si dovrà d’ora in poi -  mettere a confronto non più solo l’impresa a scopo di lucro o l’istituzione pubblica, ma anche le forme organizzative basate su accordi cooperativi.  E ciò vale per ogni attività  dove il fatto di lavorare insieme per perseguire un obiettivo comune, privilegiando il risultato collettivo al vantaggio individuale, costituisce un incentivo sufficiente all’impegno di risorse umane e materiali. L’elenco delle attività gestibili tramite il meccanismo cooperativo diventa così quasi infinito, specie se si tiene conto dei molti bisogni insoddisfatti e dei bisogni che possono emergere solo se si forma un’offerta in grado di soddisfarli. Ma ciò che conta è che l’applicazione su vasta scala di questo meccanismo può aiutare a superare la crisi per diverse ragioni: perché avvicinando le risposte ai bisogni può favorire un aumento dei consumi e quindi degli investimenti operati con risorse messe a diposizione non da pochi alla ricerca del massimo profitto, ma dagli stessi utilizzatori a fronte di una remunerazione costituita soprattutto dai benefici  individuali e collettivi che ne conseguono; perché può contribuire a ridurre i costi di produzione in quanto in grado di far leva anche su motivazioni non auto-interessate; e perché può ridurre tutto quell’insieme di costi che gli economisti chiamano di transazione e che sono associati al cattivo funzionamento sia del mercato che dell’autorità.


Una dimostrazione, benché ancora incompleta che queste considerazioni sono sotenibili è desumibile da come le cooperative, in quanto imprese che basano più delle altre istituzioni la propria organizzazione sul meccanismo cooperativo, hanno reagito alla crisi. La tenuta rispetto alle imprese di capitali è stata evidente anche se pagata con una contrazione decisa dei margini, ma è stata anche diversa a seconda dei settori: più limitata (e con perdite in parte non recuperabili) nei settori in cui le cooperative operavano in concorrenza con altre forme di impresa (come l’edilizia e i trasporti) e molto più netta nel settore dei servizi e in particolare in quelli sociali.

Sembra quindi possibile sostenere che nei prossimi anni la cooperazione possa uscire dalla situazione di sostanziale marginalità in cui finora, anche in contrasto con le reali dimensioni del fenomeno, è stata tenuta e possa contare su nuovi spazi di sviluppo sia nei settori tradizionali che in nuovi settori.

Tra i settori tradizionali vi è certamente quello della cooperazione agricola, e più in generale tra produttori,  dove la forma cooperativa è senza dubbio un modo efficiente, in taluni casi il più efficiente, per generare economie di scala in un settore dove l’impresa famigliare è la forma di impresa che meglio garantisce la qualità dei prodotti. Ma vi sono anche tutti i settori, come i servizi alle imprese, dove è il capitale umano, e non quello finanziario, il fattore strategico.

Ma gli spazi di sviluppo più interessanti si aprono nei servizi di interesse generale, sia in quelli dove la cooperazione è già largamente presente come nei servizi sociali, che in quelli in cui oggi operano quasi esclusivamente istituzioni pubbliche o che sono ancora sottodimensionati rispetto ai bisogni. E’ in questi settori che vi sono gli spazi per lo sviluppo di una “cooperazione di cittadini” di cui si cominciano a veder i primi segnali nella evoluzione della cooperazione di consumo e sociale e nelle “cooperative di comunità”. Sono infatti questi i settori dove il meccanismo cooperativo può operare meglio perché il loro sviluppo è condizionato alla capacità di individuare con precisione i bisogni e le risorse, spesso comunitarie, da mettere a frutto e di riuscire a indirizzarle verso nuovi utilizzi che, proprio perchè in grado di soddisfare bisogni riconosciuti dalla stessa comunità, riescono a convincere le persone oltre che le istituzioni a modificare l’uso di quelle risorse.


Non è tuttavia scontato che la cooperazione riesca a cogliere queste opportunità e soprattutto che riesca a coglierle in modo generalizzato. Perché questo avvenga sono necessari alcuni cambiamenti sia nella cultura dei cooperatori italiani, che nel modo in cui le istituzioni pubbliche concepiscono la cooperazione e quindi nell’organizzazione del forme proprietarie e di governance. Quello che serve è soprattutto un ampliamento delle forme di cooperazione e del loro raggio di azione che passa per il superamento del modo di concepire il ruolo della cooperazione fino ad oggi prevalente e da cui discendono sia le regole che le politiche gestionali e organizzative in essere. Che questi cambiamenti non siano scontati lo sa bene chi ha seguito il lungo iter che è stato necessario per fare accettare alle istituzioni italiane, e prima ancora allo stesso movimento cooperativo, l’esperienza della cooperazione sociale.


I cambiamenti necessari  sono almeno di due ordini: quelli relativi alla individuazione delle caratteristiche fondanti della forma cooperativa e quelli riguardanti le concrete modalità di organizzazione e gestione.


Tra i primi il più importante è certamente il superamento della convinzione che la cooperativa debba necessariamente caratterizzarsi perché a “carattere di mutualità”, intesa come servizio al socio, per rivalutare invece sia la sua “funzione sociale” che in molti casi è tutelata soprattutto dal vincolo alla distribuzione del patrimonio e, tra i principi cooperativi, quello della porta aperta, come condizioni per garantire “il perseguimento dell’interesse generale dalla comunità”. Questo aiuterebbe anche ad individuare i bisogni non soddisfatti e le risorse poco utilizzate all’interno delle comunità di riferimento, a individuare i beni o servizi, anche innovativi, in grado di soddisfare i bisogni e le modalità per attrarre le risorse necessaria a garantire una gestione equilibrata delle attività. Sia attraverso la creazione di nuove cooperative che  trasformando cooperative già esistenti.

Ne consegue la necessità di adottare un approccio più inclusivo della molteplicità di portatori di interesse coinvolti in queste attività a favore dei cittadini e di superare la stringente divisione delle cooperative per settori e tipologie così come stabilita dalla legislazione vigente. Serve più coraggio nell’impegnarsi in nuove attività e nella adozione di forme organizzative innovative, a partire non solo da quello che si è fatto fino ad oggi, ma dall’individuazione dei bisogni insoddisfatti e dalla ricerca di modalità di produzione più efficaci o più efficienti di quelle adottate da altre istituzioni (pubbliche o private).


Per quanto riguarda i cambiamenti nelle modalità organizzative e nelle pratiche gestionali, occorre innanzitutto fare maggior leva sulle motivazioni più coerenti con il meccanismo cooperativo, quali il principio di reciprocità, la disponibilità a contribuire al buon esito delle iniziative anche in presenza di ritorni personali limitati, inferiori al contributo dato e procrastinati nel  tempo. Proponendo anche vantaggi non monetari e utilizzando maggiormente la pratica del ristorno. Occorre poi ripensare anche le modalità di governance, sia per allinearle con il perseguimento dell’interesse generale e non solo di quello dei soci, ma anche per fare in modo che esse favoriscano maggiormente inclusione e partecipazione, anche ricordando che se la velocità dei processi decisionali può essere importante, molto spesso una partecipazione convinta dei soci, e più in generale della comunità, può facilitare innovazione e contenimento dei costi.


Occorre infine sviluppare una maggiore consapevolezza dell’importanza economica e sociale non solo della cooperazione ma più in generale dell’economia sociale che include tutte le organizzazioni che operano senza fine di lucro, con cui la cooperazione condivide i principi di fondo e può proficuamente collaborare e dalla cui evoluzione possono anche nascere nuove forme di cooperazione.


Carlo Borzaga


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