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32 - SONO TRE PAROLE

Postato il 24 Novembre, 2014 da Mario Viviani

logoCi sono delle parole che contraddistinguono determinati periodi della storia cooperativa e che – per quei periodi - ne mettono in luce l’identità e gli orizzonti. Le tre parole sono ‘anticrisi’, ‘anticiclico’ e ‘resilienza’.

‘Anticrisi’ (“cooperazione anticrisi”) viene da lontano, dal 1975 1, e voleva alludere alla portata innovativa e generatrice di sviluppo della cooperazione.

‘Anticiclico’ (“il movimento cooperativo funziona in modo anticiclico”) è un aggettivo un poco meno temporalmente definito; lo si è usato fin dalle crisi energetiche degli anni ‘70 e lo si usa a volte ancora adesso. Vuol sostenere o spiegare che le cooperative si comportano in controtendenza rispetto ai cicli economici: vanno bene quando l’economia va male e viceversa (sto esagerando un poco; non è proprio così, ma quasi).

‘Resilienza’ (“le cooperative sono resilienti”) è invece un concetto abbastanza recente, ma che ha preso piede e che piace molto: le cooperative durano di più, sono elastiche, si piegano e non si spezzano, passata la crisi si rimettono in sesto, insomma: vanno meglio delle altre imprese.

L’uso di questi attributi è stato – nel tempo – assai generoso. Li ho adoperati anch’io, un poco convinto e un poco per convincermi. Adesso ci vorrei ragionare sopra un poco meglio.

Le cooperative anticrisi

“Cooperazione forza anticrisi” è un libro di Vincenzo Galletti del 1975. Il senso del libro è ben riassunto da Italico Santoro nell’introduzione di un volume collettaneo dell’anno successivo: “la formula della cooperazione, che appena alcuni anni or sono sembrava avviata verso un ineluttabile declino, si presenta oggi in molti casi come una sorta di carta vincente, come la più idonea per affrontare e risolvere problemi che investono non più ceti o settori marginali, ma il cuore stesso dell’economia italiana. In piena crisi produttiva, mentre si registra una caduta verticale degli investimenti, il movimento cooperativo attraversa nel suo insieme una fase di rilevante espansione, sia sotto il profilo produttivo che sotto il profilo settoriale, fino al punto di presentarsi in tante situazioni come una alternativa non più irrealistica all’iniziativa privata o all’impresa pubblica (la prima troppo latitante, la seconda sconvolta da gestioni discutibili e da risultati antieconomici)” 2. Si trattava di un leit motiv della Lega fin dal momento dell’elezione di Galetti alla sua presidenza, nel 1974, un leit motiv che continuerà ad echeggiare nella Prima Conferenza Nazionale della Cooperazione svoltasi nell’aprile del 1977, in cui Galetti – nella sua comunicazione - ribadisce, in tono in verità più sfumato, l’idea che la cooperazione sia più vitale ed efficiente dei cosiddetti settori pubblico e privato 3.

Lo sforzo di dimostrare nei fatti la capacità anticrisi della cooperazione raggiungerà il suo climax nel 1978, con il cosiddetto “affare Duina”, il tentativo – poi non andato a buon fine – di acquisizione delle acciaierie omonime, che costerà a Galetti le dimissioni.

L’idea di Galetti che la cooperazione fosse una “forza anticrisi” aveva delle fondamenta alquanto solide. La cooperazione era in fase fortemente espansiva, dopo le grandi riorganizzazioni di quasi tutti i settori: consumo, costruzioni, abitazione, agricoltura. Ma c’era anche una ragione più diretta e specifica: molto spesso le cooperative erano nate proprio da “crisi”, ma di natura assai specifica e non tale da poter sostenere che la cooperazione avrebbe potuto facilmente sostituire (o almeno considerarsi alla pari) dei settori economici privato e pubblico.

È certamente vero – per esempio - che la spinta alla costituzione, avvio e successo di Conad nasca da crisi. Tra la fine degli anni ’50 e per tutto il decennio successivo molti operai che erano stati espulsi dalle fabbriche, o molti lavoratori della terra in cerca di una migliore condizione si sono improvvisati dettaglianti, molto spesso con successo. Qui il rapporto diretto tra “esistenza di una crisi” e “sviluppo di una cooperativa” è molto evidente.

È parimenti un fatto che le stesse forme originarie e storiche delle cooperative di lavoro o di consumo sono nate da crisi e - venendo più vicino - le stesse cooperative sociali sono in fondo nate dalla emergente crisi del welfare, quando lo Stato decise di esternalizzare attività che prima svolgeva direttamente, in modo da ridurne il costo (producendo però contemporaneamente un crescente divario di condizioni, nello stesso settore, tra lavoratori pubblici e lavoratori delle cooperative sociali).

Si potrebbe continuare, ma il concetto può essere già abbozzato: è vero che esiste un certo rapporto tra “crisi” e nascita e sviluppo delle cooperative, ma le crisi “generative” o “favorenti” la cooperazione non sono propriamente (o non sono solo) crisi economiche di mercato. Sono sempre e necessariamente anche (a volte soprattutto) delle crisi sociali. Quando i lavoratori (o i soci di una cooperativa) si trovano di fronte a un pericolo, a un attacco, a un tranello che mette a rischio la loro vita, il loro lavoro, o dei loro vitali interessi, allora reagiscono e una parte di questa loro reazione assume (o può assumere) la forma cooperativa.

Ripeto ad abundantiam il concetto che mi preme far emergere. Non è sufficiente una crisi economica “generica” perché le cooperative prosperino. È necessaria una crisi sociale, direttamente coinvolgente specifici soggetti (specifiche categorie di soggetti sociali). In questo caso una forma di risposta è o può essere la risposta cooperativa.

L’anticiclicità della cooperazione

La seconda parola – molto connessa con la prima ma non coincidente – è “anticiclicità”, che sarebbe come dire che le cooperative vanno in senso contrario al ciclo economico, cioè che quando le cose vanno male per l’insieme (o per le altre imprese) per le cooperative vanno bene.

Potrebbe anche essere vero, soprattutto tenendo conto di ciò che è appena stato detto riguardo al rapporto tra le cooperative e le crisi. Però qui il discorso si fa un poco più complesso.

Mettiamo che si tratti di un ciclo riguardante l’economia nel suo insieme, proprio come sta capitando adesso. Se la crisi generale produce quelle crisi sociali a cui si è accennato in precedenza, potremo in effetti assistere a un aumento delle cooperative: persone in difficoltà per il lavoro o per il consumo danno vita a cooperative per tentare di arginare i danni e reagire alle minacce. Da questo punto di vista una certa anticiclicità esiste.

Mettiamo invece che si tratti della crisi di un settore, che non riguarda dunque l’economia nel suo complesso, ma solo un determinato comparto. In questo caso di anticiclicità della cooperazione ne vedo abbastanza poca. È difficile che le cooperative di quel settore non risentano della crisi come le altre imprese ed è difficile che si scelga proprio questo momento per costituire – in questo settore – una nuova cooperativa. È più facile che da alcune crisi aziendali si tenti di uscire trasformando la natura societaria, cioè trasformando l’impresa (prima privata) in una cooperativa. Sono casi a cui abbiamo assistito e che prendono sempre la forma di extrema ratio per evitare il fallimento. Sono state nel tempo anche emanate leggi per sostenere situazioni del genere, la cui più famosa è la L.49/85 nota come “Legge Marcora”. Vi sono stati, rispetto a tali iniziative, successi e insuccessi (più i secondi che i primi), ma è difficile sostenere che ciò dimostra la capacità delle cooperative di essere anrticicliche.

Certamente le cooperative, per ragioni su cui mi soffermerò subito più avanti, sono meno veloci delle altre imprese ad imboccare la via della liquidazione e la stessa legislazione sulle procedure concorsuali – almeno fino a poco tempo fa – rendeva assai più difficile il fallimento dell’impresa cooperativa. Anche questo non basta per sostenere che le cooperative sono anticicliche. Anzi: in determinati settori – anche per la dimensione e le caratteristiche delle imprese - le cooperative possono essere addirittura più sensibili alle crisi di altre forme: l’esempio più evidente riguarda il settore delle costruzioni, dove le cooperative stanno subendo un fiero colpo, riducendo a pochissime entità le imprese in grado di essere significative sul mercato. Se si confronta per esempio – sempre relativamente al settore delle costruzioni – la condizione delle cooperative con quella delle imprese artigiane, si vedrà che si sono chiuse e si chiudono certamente molte più imprese artigiane che imprese cooperative, ma che contemporaneamente se ne aprono molte altre, mentre le poche cooperative di questo settore che chiudono si chiudono e basta, con una perdita secca.

La resilienza delle cooperative

La terza parola è ‘resilienza’ e vorrei porre un paio di questioni per accertare la veridicità e significatività di questo attributo: ma è proprio vero che le cooperative – a differenza delle altre imprese - si piegano, ma poi riprendono la loro forma?

Per sostenere che le cooperative sono resilienti dobbiamo innanzitutto decidere se si tratta di un attributo assoluto o relativo, se si tratta cioè di una specie di auto-riconoscimento generico oppure se ci si vuole proprio misurare con qualcuno.

Presumo che – per quanto implicitamente - ci si voglia proprio confrontare con qualcuno, ovvero che con questa parola-formula si intenda dire “le imprese cooperative sono più resilienti delle altre imprese: mentre queste si spezzano sotto i colpi delle crisi, noi ci pieghiamo, ma poi riprendiamo la forma”.

Posto che questo sia il senso, bisogna certamente decidere con chi - con quali imprese - ci si intende confrontare. Con le imprese quotate? con le imprese bancarie? con le imprese artigiane? con le imprese commerciali? con le imprese pubbliche? Non ho fatto questi esempi a caso. Di tutte le forme d’impresa appena accennate ce n’è solo una che, a mia avviso, è meno resiliente delle cooperative. Tutte le altre lo sono di più, e in maniera parecchio evidente. Se dovessero esservi dei dubbi si considerino questi aspetti: negli ultimi dieci anni non v’è impresa bancaria che abbia chiuso, nonostante le gravissime crisi affrontate. “Bella forza – mi si risponde certamente – quelle sono banche!”. Vero. Le banche sono forme d’impresa che non falliscono, che eventualmente vengono assorbite da altre banche, che in fondo dunque sono garantite. Non si può per questo dire che non siano resilienti. “A modo loro” sono resilientissime.

Al mio ipotetico interlocutore potrei poi far notare che le stesse considerazioni si possono fare anche per le imprese pubbliche (intendo a controllo pubblico), o per le imprese quotate, che se proprio in gravissime difficoltà vengono vendute, smembrate, assorbite, ecc., ma che difficilmente spariscono. Tutte queste imprese di norma non falliscono, resistono, si modificano ma non chiudono. Si tratta allora di imprese resilienti? Non sarà mai che il loro specifico statuto e la loro relazione con il mercato impedisce loro (di fatto) di fallire?

La prima considerazione è dunque questa: il fatto di essere più o meno resilienti dipende anche – e non in piccola parte - dalla natura istituzionale dell’impresa, dalla sua natura; insomma per qualche tipo di impresa morire è difficilissimo. Le cooperative fanno parte di questa categoria, come sanno benissimo i commissari e i liquidatori.

Dato che il confronto così generale (o istituzionale) non ci dà dei grandi risultati, proviamo a raffinare il ragionamento, a essere meno schematici.

Passiamo dunque a un confronto per settori, cioè vedere se le cooperative di un determinato settore sono più resilienti delle imprese d’altro tipo operanti nello stesso settore.

Avremmo subito qualche rilevante problema a realizzare il confronto: con chi compariamo le cooperative sociali? o quelle di abitazione? Ci sono infatti cooperative “inconfrontabili”, che cioè sono delle unicità giuridiche e commerciali, dato che coprono ambiti di attività che per ragioni diverse possono essere ritenute “riservate”. Qui la valutazione dell’ipotetica resilienza è per forza generica. Se si sostiene che sono resilienti (o più resilienti) ci tocca dar ragione, dato che non è possibile alcun confronto.

Si può certamente osservare che è connaturato alla cooperazione il fatto che i soci si accollino alti costi pur di mantenere in vita la propria cooperativa. È sempre stato così, e meno male se è ancora così. Vuol dire che i soci preferiscono compiere dei sacrifici pur di salvaguardare lo strumento cooperativo, per loro così importante. Ma questa non è “essere più resilienti di”, è scegliere consapevolmente di continuare a investire sul mezzo del proprio riscatto (si sarebbe detto una volta).

Non sono dunque molti i campi dove è possibile realizzare confronti significativi per vedere se le cooperative sono veramente così resilienti: la manifattura, le costruzioni, i trasporti, alcuni tipi di servizi. Qui si può certamente osservare se le cooperative durano di più o di meno: parità di mercato, parità di rischi, parità di regole.

Prendiamo dunque come campo di verifica la manifattura. In questo comparto di fronte alle tante chiusure di imprese private le chiusure di cooperative sono state veramente poche. Però bisognerebbe operare in modo statisticamente coerente, cioè calcolando la percentuale di chiusure o di cessazione d’attività rispetto all’universo di riferimento. Se le cooperative manifatturiere sono in tutto 10 e se ne sono chiuse 2 siamo di fronte a un numero assoluto piccolo, ma a una percentuale mica da poco, il  20% del totale. Le imprese d’altro tipo invece sono – mettiamo – 300. Si tratta di un numero a caso, ma è evidente che le “non cooperative” sono molte di più delle cooperative. Di queste ne sono fallite 30, che equivale al 10%.

Cambiamo tipologia. Parliamo in generale di imprese artigiane operanti in manifattura.  Sono 4.000 e se ne sono chiuse 500 (un numero assoluto terribile), che però è solo il 12,5% del totale.

La cooperazione sembra così la più virtuosa (solo due chiusure), ma in effetti non lo è mica. Immaginiamo se invece di 2 le crisi se ne portassero via 5, di cooperative manifatturiere. E proviamo a concentrarci su alcuni settori cooperativi dichiaratamente in crisi, come per esempio quello delle costruzioni. Siamo anche qui nella condizione di sostenere che le cooperative sono più resilienti?

Perché adotto un atteggiamento così critico rispetto al termine “resilienza”? Perché mi fa un poco paura come, in generale, mi fanno paura le consolazioni o i fatalismi. Le cooperative sono forme imprenditoriali che durano in genere più delle altre per molte ragioni, nessuna delle quali dovuta al destino, ma in parte di tipo istituzionale e in parte di tipo politico-sociale. Le ragioni istituzionali sono note e si riassumono nel fatto che non esiste, come ultima istanza, il mercato per la eventuale soluzione delle crisi di una impresa cooperativa. Le cooperative non si vendono e non si chiudono, al limite si liquidano e si tratta di un’operazione molto lenta e complicata.

Le ragioni politico-sociali riguardano il fatto che per molte cooperative l’exit da parte dei soci ha un costo particolarmente alto (soprattutto se lo scambio mutualistico riguarda il lavoro) e i soci sono disponibili ai sacrifici. Attenzione però: esistono – soprattutto nella cooperazione d’utenza – costi d’uscita per i soci molto più bassi o addirittura irrisori, ed è per questi settori che è più rischiosa l’idea che esista una congenita capacità di “maggiore resilienza”.

In definitiva: attenzione a non cullarsi in presunzioni di differenze positive per quello che riguarda la capacità delle cooperative di stare sul mercato. La crisi generale che stiamo vivendo colpisce prima le imprese marginali e tra queste alcune cooperative. Una volta che la crisi è esplosa ogni impresa risente delle sue caratteristiche istituzionali e delle sue risorse imprenditoriali. Se i caratteri istituzionali possono far sentire le cooperative più resilienti (ma sarebbe meglio dire resistenti) ciò non significa affatto che le loro risorse imprenditoriali siano adeguate, e in un mercato aperto (e possibilmente meglio funzionante) sono alla fine queste quelle che contano. In caso diverso le cooperative possono anche essere più resistenti, ma saranno i loro soci che ne pagheranno il prezzo. Dunque sono i soci quelli realmente resistenti (o resilienti), non le imprese.


Mario Viviani

1- V. Galetti, Cooperazione forza anticrisi, Milano, Feltrinelli, 1975.
2- La cooperazione in Italia, Prefazione di I. Santoro, Roma, Editori Riuniti, 1976, pp. 7-8.
3- Atti della Prima Conferenza Nazionale della Cooperazione, Ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale, Intervento di V. Galetti, Vol 1, pp. 90-101.


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