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24 - COOPERAZIONE E BENI COMUNI

Postato il 16 Novembre, 2014 da Stefano Zamagni

logo La problematica dei beni comuni - sintagma che corrisponde all’inglese commons – è letteralmente esplosa nell’ultimo quarto di secolo. Non si può non ammettere che è solamente nell’ultimo trentennio che quella dei beni comuni è diventata una delle più acute questioni, a livello di discorso pubblico, nei paesi ad avanzato grado di sviluppo. Beni quali aria, acqua, clima, fertilità della terra, sementi, biodiversità, conoscenza, cultura, ecc., stanno ponendo sfide inedite per il futuro dell’umanità. La conservazione o riproduzione di questi beni, siano essi globali o locali, materiali o immateriali, è condizione essenziale per il mantenimento di un ordine sociale democratico. I beni comuni esistono da sempre, ma è solo di recente che si è presa coscienza di ciò che costituisce la loro essenza, che è quella di costituire il limite, oltrepassato il quale si consuma la “tragedia”. Si pone dunque la questione: come gestire un bene comune? Preso atto che né la gestione di tipo pubblicistico né quella di tipo privatistico sono vie pervie per la bisogna – e la stessa cosa può dirsi per la soluzione intermedia del cap and trade, secondo cui l’autorità pubblica conserva la proprietà e fissa le modalità con le quali viene autorizzata la gestione privatistica – quale via percorribile si prospetta all’orizzonte per assicurare sia la fruizione universalistica del bene comune sia la sua salvaguardia nel lungo periodo?

La mia risposta è che la soluzione comunitaria è quella che offre le maggiori chance di uscita dalla “tragedia dei commons”. Cosa manca, infatti, alle soluzioni privatistica e pubblicistica? L’idea di comunità. Se le persone che fruiscono del bene comune non riconoscono ( e accettano) che esiste tra loro un legame di reciprocità, né il contratto sociale hobbesiano che affida al Leviatano il compito di scongiurare il rischio dell’escludenza, né l’individualismo libertario che affida alla coscienza dei singoli il compito della autolimitazione, potranno mai costituire soluzioni soddisfacenti al problema dei beni comuni. I quali sono a titolarità diffusa nel preciso senso che tutti devono poter accedere ad essi. Ne deriva che accesso e proprietà sono categorie affatto distinte – talvolta in conflitto tra loro – e ciò a prescindere dal fatto che la proprietà sia privata o pubblica. L’idea di base allora – per prima rigorosamente esplorata da Elenor Ostrom nel suo Governing the Commons – è quella di mettere all’opera le energie della società civile organizzata per inventarsi forme inedite di gestione comunitaria. In altro modo, il modello di gestione deve essere congruente con la natura propria del bene di cui si tratta: se questo è comune, anche la gestione deve esserlo.

Nelle condizioni storiche attuali, la forma di gestione comune che si palesa maggiormente spendibile è quella di tipo cooperativo. Non però quella della cooperativa monostakeholder che non dà garanzie adeguate al riguardo. Occorre pensare piuttosto al modello della cooperativa multistakeholder se si vuole dare vita ad una organizzazione ottimale di offerta del bene comune. È questo un modello che non esiste ancora in modo compiuto, anche se l’esperienza delle cooperative sociali- nate in Italia agli inizi degli anni settanta del secolo scorso- e la nascita in tempi recenti delle cooperative di comunità- la prima delle quali costituitasi a Melpignano nel leccese nel 2011- costituiscono significativi precedenti per giungere ad un modello istituzionale congeniale al superamento della “tragedy of commons”. Invero, se si svolge un confronto spassionato tra i principi regolativi dell’impresa cooperativa e i requisiti richiesti per una gestione di tipo comunitario dei beni comuni, si scopre che la forma cooperativa è decisamente quella più adatta allo scopo. La ragione principale di ciò è che la soluzione cooperativa consente di prestare la necessaria attenzione al lato della domanda dei beni comuni, un lato finora sistematicamente trascurato. Infatti, la teoria economica standard ha sempre privilegiato l’approccio “offertista” alla problematica dei commons; vale a dire ci si è sempre preoccupati dei modi per recuperare i costi e per conservare gli incentivi che garantiscono livelli adeguati di offerta. Mai si è sviluppata una teoria della domanda di beni comuni: il consumatore di tali beni è un soggetto passivo che “deve” consumare quel che l’offerta decide di fornirgli. E’ questa una lacuna di non poco conto della teoria ufficiale: mentre si è sviluppata una articolara teoria della domanda di beni privati e di beni pubblici, non altrettanto si può dire per la domanda di beni comuni, che pure esiste ed è in crescita continua nelle nostre società avanzate.

Due sono le condizioni necessarie che devono essere soddisfatte a tale riguardo. Per un verso, si tratta di verificare la coerenza tra le finalità della cooperativa multistakeholder e i due requisiti irrinunciabili di ogni bene comune: eguale e libero accesso e assenza di discriminazione in base all’identità e al potere d’acquisto del fruitore. Per l’altro verso, occorre stabilire se questa forma di impresa è efficace; vale a dire se possiede gli incentivi appropriati per consentire di giungere ad un equilibrio organizzativo che coinvolga tutti gli stakeholder. Si tratta pertanto di decidere quali contenuti deve avere il contratto sociale della cooperativa multistakeholder affinché coerenza e efficacia possano essere simultaneamente conseguite. Il che significa fare fronte al problema di come scongiurare il rischio che la collusione tra management e stakeholder interni (lavoratori e investitori) determini effetti negativi in capo agli stakeholder esterni (utenti, fornitori, territorio). Invero, un sistema di gestione efficace dei commons deve adempiere ad un triplice ruolo. Primo, prevedere azioni comuni di tutela del diritto di fruizione della risorsa da parte della comunità. Il che assicura il libero accesso alla risorsa. Secondo, fare in modo che l’identità del gruppo di soggetti che fruiscono della risorsa sia preservata nel tempo, così che gli eventuali conflitti possono essere gestiti con il ricorso all’opzione voice e non a quella di exit. Terzo, garantire la condivisione sia delle regole comuni di gestione sia delle informazioni sui comportamenti dei singoli e ciò allo scopo di consentire il coordinamento strategico delle azioni di tutti i membri del gruppo. (Thomas Schelling ha chiamato assai opportunamente il coordinamento strategico un meeting of minds, per significare che ciascun agente deve conoscere non solamente i termini oggettivi delle diverse opzioni, ma anche le motivazioni che inducono gli altri ad agire in un certo modo).

È certamente vero che ancora scarsa è la letteratura che tratta della soluzione comunitaria al problema della gestione dei beni comuni. Non c’è da meravigliarsene se si considera che l’impianto teorico della ricerca scientifica in ambito economico è ancora così pervasivamente ancorato al paradigma fondato sulla dicotomia pubblico-privato e pertanto sulla diade comando-contratto. Eppure, già i nostri costituenti dovettero avere in mente un ordine sociale trifario basato sulla tricotomia pubblico- privato- civile se è vero che dopo aver scritto nell’art. 42 della Costituzione che la proprietà è pubblica o privata, aggiunsero nell’art. 43 che: “ai fini di utilità generale la legge può riservare originariamente o trasferire, mediante espropriazione e salvo indennizzo, allo Stato, ad enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti determinate imprese o categorie di imprese, che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio ed abbiano carattere di preminente interesse generale.”

È un fatto, ormai da tutti riconosciuto, che i beni strategici ai fini del progresso della nostra società non sono più i tradizionali beni privati e neppure quelli pubblici, ma i beni comuni. E’ per questa ragione che l’economia nell’era dei beni comuni richiede un cambio di paradigma. La ferma cooperativa di impresa è quella che si richiede a tale fine.

Stefano Zamagni


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