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20 - Una generazione di cooperatori

Postato il 11 Novembre, 2014 da Dino Terenziani

logo Una generazione di cooperatori, entrata negli anni ’70  ha concluso la carriera lavorativa ai primi del 2000 e io sono tra questi. Ho assistito con sgomento alle attuali crisi di troppe cooperative e mi vien da dire che molti noi sono stati “complici, ma non colpevoli”.

Vorrei spiegare questa affermazione, che ha qualche comprensibile intento assolutorio, ma non mi pare troppo lontana da come sono andate le cose.

Quando nel 1945 la cooperazione risorge fa riferimento alla elaborazione del riformismo socialista, ma ben presto l’egemonia comunista sostituisce questa impostazione.

La nuova strategia del PCI individua nella cooperazione un elemento di rottura del sistema capitalista, nella misura in cui essa partecipa alle lotte politiche dalle masse lavoratrici. Nasce da qui la politica della cinghia di trasmissione, garantita dai dirigenti delle cooperative che sono in gran parte provenienti dalle fila dei partigiani. E così sarà fino all’inizio degli anni ’70, quando si inizia a pensare ad un nuovo modo di fare cooperazione.

I capi di origine partigiana sono alle soglie della pensione e, con grande lucidità e altrettanta generosità, promuovono il cambiamento del quadro dirigente.

In pochi anni entra una schiera di giovani diplomati e laureati che, provenienti dalla contestazione del ’68, hanno abbandonato l’estremismo e militano nel PCI e in parte assai minore nel PSI.

Dal punto di vista politico la svolta si consolida con la nuova presidenza nazionale di Vincenzo Galletti (1974-1977) che, pur mantenendo l’organicità della Lega alla sinistra, impegna tutte le strutture sindacali per superare definitivamente il tradizionale ruolo di sussidiarietà.  Le disavventure del caso Duina posero fine alla presidenza Galletti, ma non all’ambizione di rafforzare il movimento, tanto da lanciare lo slogan: “Cooperazione forza anticrisi”.

Negli anni ’80 lo sviluppo delle dimensioni aziendali e la capacità di stare sul mercato pongono il problema della centralità dell’impresa cooperativa e della conseguente uscita dalla sudditanza partitica. E’ Lanfranco Turci, presidente nazionale dal 1987, che cerca di trovare una sintesi tra le rivendicazioni di autonomia imprenditoriale delle cooperative ormai grandi e la necessità di restare un movimento con obiettivi anche politici.

Il tentativo basato “sul ruolo forte delle strutture politico-sindacali” che sostituisse (senza contrapporsi) il controllo partitico non passò e Turci, nel lasciare la presidenza nel 1992,  ebbe a segnalare la sua insofferenza verso un certo “cesarismo” imprenditoriale.

In quel momento la generazione dei quadri entrati negli anni ’70 non ha  saputo cogliere l’occasione, “con grande lucidità e altrettanta generosità”, di promuovere il cambiamento, coniugando le ragioni dell’autonomia delle cooperative con la necessità di un organismo terzo di garanzia.

Chi poteva frequentare i luoghi delle decisioni aziendali si sarebbe accorto che queste erano assunte da un ristretto gruppo autoreferenziale, al di là della liturgia della partecipazione.  Il gruppo dirigente, molto più attento alle ragioni della crescita che a quelle della certezza del lavoro dei soci, tendeva a consolidarsi escludendo ogni voce critica.

Questa sintesi brutale, tuttavia, non è onesta nei confronti dei molti tentativi di ridefinire l’identità cooperativa nelle mutate condizioni di struttura imprenditoriale e di rapporto col mercato, con due obiettivi del tutto onorevoli: 1) come salvaguardare il ruolo del socio nella governance cooperativa e 2) come ridefinire una “carta di valori” di riferimento.

Scorrendo i contributi elaborati per tutti gli anni ’90, troviamo affermazioni alte, proposte da dirigenti (Enea Mazzoli 1992, Ivano Barberini 1992, Francesco Boccetti 1993, Pierluigi Stefanini 1997, Mauro Gori 1997) e da studiosi (S. Zamagni 1993, Mario Viviani 1999, Federico Butera 2000, Stefano Zan 2001) senza però dare risposte convincenti alle osservazioni del direttore generale del Tesoro Mario Draghi che nel 1997 affermava: “il paradosso della governance cooperativa risiede proprio nel fatto che un modello organizzativo dell’attività di impresa tutto improntato a valori di partecipazione e democrazia ha in realtà prodotto meccanismi partecipativi molto deboli e forme di democrazia che non sono riuscite a prevenire fenomeni di immobilismo e di auto perpetuazione delle strutture di comando.”

I lodevoli tentativi sperimentati non avevano oggettive possibilità di successo, in quanto la grande dimensione raggiunta da molte cooperative non poteva consentire un reale processo di governo da parte dei proprietari formali, passato così nelle mani delle elìte manageriali (comunque nominate). Senza “azionisti”in grado di farsi valere, è venuto a mancare, con la crisi dei partiti, anche il fattore equilibrante dell’azionista occulto ma autorevole: il PCI (e in misura marginale come il PSI).

Si è aperto così uno spazio, che i presidenti manager, con le loro ristrette e fedeli direzioni, hanno occupato, opponendosi all’unica possibilità di controllo, che essi stessi avrebbero dovuto riconoscere e legittimare in un organismo terzo che poteva essere la Legacoop opportunamente attrezzata alla bisogna. Ma in quel contesto le strutture sindacali, non avevano assolutamente l’autorevolezza per esercitare quel ruolo, nell’interesse dei soci e della reputazione del Movimento.

E’ andata così e nel primo decennio del nuovo secolo, sono scoppiati i disastri aziendali, provocati da un management irresponsabile (nel senso che non doveva rispondere a nessuno). Dapprima sporadici e poi, quando è scoppiata l’attuale crisi, sono stati coinvolti interi settori. Non dobbiamo dimenticarci però che per ogni fallimento ci sono 1000 cooperative virtuose, ma di certo non per una diversa governance, bensì perché le scelte dei dirigenti sono state più avvedute.

Ora col senno di poi, mi vien da dire che molti di noi sono stati complici, non avendo la determinazione di gridare in tempi non sospetti che il re era nudo, ma voglio credere non colpevoli.

Dino Terenziani


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1 Commenti
  1. Gian Luigi Bettoli on 18/11/14

    Interessante, è una chiave di lettura che merita approfondire. Credo che vada sviluppato a fondo il discorso sulla dialettica tra la struttura (Legacoop) e le cooperative, l'idea non è male, ma dovrebbe essere maggiormente verificata sul campo. Detto fuor di metafora: ci basta un'analisi tutto sommato politologica, o bisogna anche approfondire i cambiamenti sociali intervenuti? La questione era attualissima già negli anni '70, basti vedere gli scritti di allora di Galgano. E poi, siamo proprio sicuri di questo criterio conclusivo, sull'essere “complici, ma non colpevoli”? Io faccio parte di chi ha sempre cercato di impersonare un'altra linea, anche se magari non mi sento di essere sempre stato né adeguato né lucido nel leggere le dinamiche in atto. Non mi è parso di vedere tutta questa autonomia individuale in giro. Sono per altro perplesso dal discorso su Pci e Psi: in Legacoop il ruolo del Psi è rimasto molto più "equilibrato" che nella società esterna, e spesso è stato preminente nei territori. Non vorrei che si finisse per trovare un comodo capro espiatorio. In fondo, mica nessuno era comunista veramente (come disse il Veltroni) ?

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