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14 - Cooperative: una identità al futuro

Postato il 14 Ottobre, 2014 da Michele Dorigatti

logo Sono molte e talune scomode le questioni poste da Mauro Giordani e riprese dai successivi interventi. Su due di esse tenterò di esporre il mio pensiero. La prima ha a che vedere con la questione dell’identità cooperativa. Da dieci anni frequento a vari livelli il mondo cooperativo (trentino), attivo in molti settori dell’attività economica. Ogni anno incontriamo decine, centinaia di cooperatrici e di cooperatori, dai neo assunti ai quadri intermedi. Eppure un tratto che accomuna la maggioranza di essi è una sorta di incolpevole inconsapevolezza della specifica natura dell’impresa cooperativa. Come è possibile che sulle ragioni profonde dell’esistenza vi sia tanta trascuratezza?

Dopo tutto, il movimento cooperativo esiste da più di un secolo e le prime imprese sono nate tre secoli fa… Ci sarà un vuoto nella teoria, verrebbe da ipotizzare. E invece no: non sono mancati nel corso del tempo studiosi di fine Ottocento e di metà Novecento che hanno delineato la doppia dimensione che rende unica nel panorama delle forme d’impresa l’organizzazione cooperativa. Dal grande Alfred Marshall a Stefano Zamagni, da Luigi Einaudi a Giulio Sapelli, gli economisti hanno colto il fundamentum divisionis che distingue noi dal resto del mondo: la cooperazione è tale quando è allo stesso tempo movimento sociale e fenomeno imprenditoriale.

La cooperazione è vera quando dimostra di saper tenere in equilibrio, perennemente instabile, la dimensione economica e la dimensione sociale, o civile, come si usa dire oggi. I due Zamagni, Stefano e Vera, (2008) hanno felicemente espresso il concetto nel modo che segue: “La cooperativa unisce in sé due dimensioni distinte sia pure non rivali: la dimensione economica, di soggetto che opera entro il mercato, accettandone la logica, e la dimensione sociale, di ente che persegue fini meta-economici e che genera esternalità positive a vantaggio di altri soggetti e virtualmente dell’intera collettività. E’ questa duplice natura che rende la cooperativa una realtà molto difficile da spiegare e molto complessa da governare”. Un compito arduo per i formatori, ai quali è chiesto di illustrare la natura originale della cooperativa ma soprattutto una sfida impegnativa per gli amministratori e i manager, chiamati ogni giorno ad inverare valori e principi cooperativi in mercati sempre più in-civili e iper-competitivi. Come tentare di spiegare questa “distrazione” identitaria?

La forza d’attrazione del pensiero economico che è andato per la maggiore (il cosiddetto mainstream) ha avuto un ruolo decisivo. Esiste, eccome, un pensiero unico in economia: in base ad esso, l’unica vera forma d’impresa è ritenuta essere quella capitalistica. Basta aprire un qualsiasi manuale di economia aziendale o di microeconomia per rendersene conto. Il resto è bio-diversità di lega inferiore. Sopportata, fino a quando e in quanto marginale. E’ nota a tutti l’infelice, ma rivelatrice, battuta di Luca Cordero di Montezemolo…Ma quel che è più preoccupante è altro: il contagio si è diffuso tra cooperatori, ammaliati dall’ideologia turbocapitalista, sviluppando non di rado un malcelato senso di inferiorità. A mio parere non basta affermare che la bio-diversità è ricchezza: ancor prima va ristabilita una condizione di pari dignità tra le varie forme d’intrapresa (for profit, no profit, not for profit, per usare una distinzione cara al mainstream). Insomma, fino a che i cooperatori (non tutti, beninteso) si sentiranno, in cuor loro, figli di un dio minore, la strada sarà in salita.

La disattenzione verso la produzione di pensiero da parte delle centrali cooperative, nazionali e locali, è un secondo, influente, fattore di spiegazione. Il mondo confindustriale ha fondato importanti università private, a Milano come a Roma, ha finanziato e finanzia corsi di laurea, dottorati, master e via dicendo. Quanti imprenditori e quanti manager sono stati “allevati” in Bocconi, alla Luiss e alla Luic… e ora occupano posti di rilievo nella finanza, nei ministeri, al governo, un po’ dovunque. Il mondo confindustriale ha creato all’interno dell’associazione di rappresentanza un Ufficio Studi (quello di viale dell’Astronomia, come viene citato dalla stampa), in grado in tempo reale di fare opinione e dialogare con i policy-makers. Per converso, il movimento cooperativo non ha mai potuto contare su un’unica centrale di pensiero, diviso com’era da storiche matrici culturali ed ideologiche. Né si è mai dato da fare per costruire un luogo fisico dove far crescere la classe dirigente del futuro. Le conseguenze sono note a tutti: quando una coop deve selezionare un dirigente di un certo peso, non trovando un ricco mercato interno, è costretta ad andare fuori.

Trapiantare un manager cresciuto nel pensiero unico in un ambiente come quello cooperativo è operazione che non sempre, ce lo insegna la storia e la cronaca, produce buoni risultati… Come invertire la rotta? Basterebbe dare retta ai padri fondatori e mettere in pratica il loro patri-monium: letteralmente “dono dei padri”. Di quale dono si tratta? Gli “ignoranti” pionieri di Rochdale decisero di utilizzare per rafforzare la loro identità aziendale e la loro cultura d’impresa il 2,5% degli utili. Una bella cifra, non una dose omeopatica! E lo scrissero a chiare lettere nello statuto, e non in qualche polveroso e inaccessibile regolamento interno. Come dice bene William McKinley, “l’uomo libero non può essere a lungo un uomo ignorante”. Per l’universo cooperativo investire in cultura, massicciamente e seriamente (quanto fastidiosa retorica abbiamo sentito in un solo decennio), se ieri era imperativo categorico, oggi è questione di sopravvivenza. La seconda è relativa all’immagine, efficace quanto provocatoria, della cooperazione vista come gigante economico&nano politico. Dovremmo trovare un accordo su cosa intendiamo per gigante economico.

Sta di fatto però che la cooperazione è il più grande movimento socio-economico al mondo, con una base sociale composta da più di 1 miliardo di persone. Venendo al nostro Paese, l’incidenza dell’economia cooperativa sul PIL domestico si stima possa toccare l’8, il 9% dell’intera ricchezza prodotta nel nostro Paese. Percentuali di tutto riguardo…che, ancora di più, se ce ne fosse bisogno, ci debbono far interrogare sulla seconda espressione, il nano politico. Come mai la ricchezza economica non si è trasformata in influenza politica? Perché mai i legislatori nazionali, ed ora pesantemente quegli europei, non tengono in debita considerazione la natura specifica delle imprese cooperative, quando è l’ora di legiferare e di regolamentare? Ancora una volta, per comprendere a fondo, occorre tenere presente l’inconsistenza dell’elaborazione culturale, tranne poche, encomiabili ma limitate eccezioni. Non ci resta che affidarci alla nuova classe dirigente, che recentemente ha varato l’Alleanza delle Cooperative Italiane, affinchè possa inaugurare una nuova stagione della cultura e dell’identità cooperativa. Penso a una campagna nazionale, come si fa ormai da anni in paesi vicini e lontani. Il mondo muore per mancanza di pensiero. La cooperazione non gode di miglior salute…


Michele Dorigatti

 


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