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10 - La scoperta della cooperazione

Postato il 1 Ottobre, 2014 da Biljana Prijic

logo Perché la cooperazione promuove se stessa? Non so se ci abbiamo pensato abbastanza. Le imprese di capitali certamente promuovono il proprio modello, per rafforzare il distretto, l’economia nazionale, per aumentare la competitività. Ma con meno pervicacia di quanto faccia la cooperazione. Quale forza primordiale ci spinge a favorire lo sviluppo del movimento cooperativo, a far conoscere la cooperazione ai giovani, slogan sentiti tante e tante volte? Forse più detti che praticati, ma ribaditi in mille occasioni. Non solo.

La cooperazione promuove se stessa e si lamenta di riuscirci poco. Non già facendo utile autocritica, ma definendosi difficile da comunicare. E non lo dico certo col dito accusatorio alzato. Sono una cooperatrice e una comunicatrice: chiamo in causa me stessa prima di chiunque altro, mi chiedo io per prima in cosa sbaglio, e solo dopo chiedo a chi legge in cosa sbagliamo.

Vedo una grande contraddizione in questa difficoltà comunicativa rispetto alla parallela affermazione di un’altro mantra di pari diffusione, che io stessa ho più volte proferito, scritto, condiviso: la cooperazione è incredibilmente contemporanea, versatile, utile, adatta al mondo di oggi. Se è così cool, allora, perché facciamo tanta fatica a comunicarne le strabilianti caratteristiche? Non mi so dare una risposta, ma mi piace smontare le contraddizioni all’apparenza incomprensibili, e provare a capire cosa non funziona.

Si legge che la cooperazione è nata in Inghilterra nell'Ottocento, e che poi si è diffusa in tutto il mondo. Alcuni lavoratori bisognosi di una spesa di qualità si sono messi assieme per garantirsi una sussistenza dignitosa, inventando un modello destinato a un successo planetario. L'Inghilterra rivendica questa invenzione con un'opera egregia di valorizzazione e mitizzazione di quei pionieri cooperatori, a un livello e con una professionalità che chissà perché non abbiamo saputo imitare. Ma - maestria comunicativa inglese a parte - è un altro l'aspetto che più mi affascina di questo processo.

I primi cooperatori sono stati bravi a formalizzare la loro unione, a legittimare la loro neoimpresa - una bottega o più in avanti una cooperativa di lavoro -, a inserire la loro creatura nel sistema economico e sociale del momento storico in cui vivevano. Ma l'idea di fondo - mettersi insieme per rispondere a un pressante bisogno comune - ha un tratto universale e umano che rende forse improprio l'uso del termine "invenzione".

Persino nell'Inghilterra della Rivoluzione Industriale, la soluzione condivisa era come a portata di mano, quasi un uovo di Colombo che bastava picchettare un po' sul tavolo perché vi si adagiasse, senza più rotolare via. Non proprio la scoperta dell'acqua calda, come si dice per scherzo da bambini. Ma "scoperta" della cooperazione, come un continente nuovo che si sa che c'è, ma poi ci vuole un po' di audacia per arrivare a esplorarlo.

Non so se è una mia fantasia, questa della cooperazione quasi scontata, ovvia. Di sicuro nell'uomo entrambe le nature, quella competitiva e quella cooperativa, convivono senza grandi problemi. Non vince il più forte, ma quello che meglio si adatta all’ambiente, scriveva Darwin, un contemporaneo dei probi pionieri. È come se la cooperazione desse agli uomini qualche possibilità in più di adattarsi a un ambiente socio-economico spesso ostile a chi non detiene i mezzi di produzione, rafforzando il potere contrattuale di chi ne ha sempre avuto poco. In questo senso a Generazioni abbiamo fin dai primi anni di attività parlato di nuovo proletariato, e di braccianti 2.0, ove l'unica ricchezza delle giovani generazioni non sta più nella prole o nelle braccia, ma nel talento e nel cervello, almeno prima che sia costretto alla proverbiale "fuga".

Abbiamo costruito un sistema di imprese cooperative multisettoriale e solido, capace persino di reggere meglio di altri modelli l'impatto fortissimo di una crisi che non è soltato economica e che sempre più si profila come uno spartiacque tra un prima di cui ancora dobbiamo capire molto e un dopo qualunque esso sarà. Ma abbiamo trascurato la capacità di raccontare la cooperazione con semplicità, nella sua natura essenziale. Siamo poco efficaci nel raccontarla facendo leva su quello che è: un'opportunità. Una strada da valutare tra le tante, ma di interesse forse proprio per chi sta vivendo i suoi primi anni di lavoro durante questo epocale passaggio a un nuovo ordine economico e sociale.

Conosco neocooperatori entusiasti alle prese con statuti, regolamenti, compilazione infinita di moduli che sfiancherebbero il più ottimista degli startupper. E con questo non voglio dire che non bisogna studiare, anzi! Un buon business plan è il modo migliore per dare concretezza a un’idea, per metterla alla prova, per sapersi presentare con professionalità a chi potrà premiarla e sostenerla, questa idea speriamo geniale. Ma non bisogna perdere di vista l’importanza del sogno, dell’identificazione con un sistema di valori che è ancora forte proprio perché primordiale, umano, sociale. Se ci pensiamo bene, la “mutualità esterna” è la Corporate Social Responsability ante litteram, la responsabilità sociale d’impresa che va tanto di moda anche nelle imprese di capitale. Abbiamo un primato in tanti campi, ma non sappiamo bene rivendicarlo. A me ex giovane cooperatrice (sono nata in un paese che non esiste più quando il mondo era ancora diviso in blocchi: non voglio definirmi giovane) la spinta ideale più grande l’ha data la partecipazione a Generazioni, opportunità di cui ancora ringrazio la piccola cooperativa di lavoro di cui sono stata socia fino a un paio di mesi fa.

Allora è questo che mi sento di consigliare ai cooperatori “navigati”, quelli che si occupano di promozione, di consulenza economica, finanziaria, legale per le startup cooperative. Aiutiamo le nuove leve con competenza, ma senza smorzare il loro entusiasmo. Diciamo con franchezza che avviare un’impresa è difficile, ma che avranno al loro fianco altri cooperatori, che saranno parte di un sistema di imprese diversissime tra loro, ma che parlano ancora un linguaggio comune che va oltre il profitto, e che strutturalmente pensa al futuro, di tutti. Non solo. Facciamoci contaminare dall’entusiasmo di chi viene a proporci una nuova idea, anche se il business plan pare un colabrodo. Diciamo no quando serve, ma motiviamolo, e non perdiamo un contatto solo perché abbiamo la scrivania ricolma di carte e la mailbox piena di posta da smistare.

“Il movimento delle cooperative ha saputo parlare benissimo a se stesso, ma non sempre è stato in grado di diffondere il suo messaggio al di fuori del proprio ambito”: non è una citazione della portavoce di Generazioni o di qualche esponente di Legacoop. Sono parole di Pauline Green, presidente dell’Alleanza Cooperativa Internazionale, che riunisce tutte le cooperative del mondo e circa un miliardo (un miliardo!) di soci. Mal comune mezzo gaudio? Giammai! Piuttosto, le parole di Pauline Green ci spronino a fare meglio la nostra parte, e ci diano ulteriore responsabilità. Il mondo è già cambiato. Gli scenari che si prospettano avranno nuove parole, nuove grammatiche, nuovi attori. Vorrei tanto che la cooperazione fosse tra questi, credo lo meriti. Questo successo sta in massima parte nelle nostre mani.


Biljana Prijic

 


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