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02 - Come può la cooperazione cessare di essere un nano politico?

Postato il 4 Luglio, 2014 da Antonio Zanotti

logoNon ricordo quanti anni siano trascorsi (molti) né in quale circostanza venne affermato che la cooperazione (in Italia, ma potrebbe valere anche per altri paesi) era “un gigante economico, ma un nano politico”. A dispetto degli anni trascorsi, penso che in molti sarebbero ancora disponibili a sottoscrivere questa affermazione.
Tralascio al momento la prima parte dell‘affermazione, cioè quanto sia effettivamente grande questo ‘gigante’. Negli ultimi anni sono apparse diverse ricerche per stimare la dimensione della cooperazione e di recente gli studi dell’ACI stanno fornendo un considerevole numero di informazioni in merito. Mi riprometto di ritornare sull’argomento in altra occasione.
Qui mi interessa capire come smettere di essere “un nano politico”. Per avanzare una proposta è però necessario intendersi su cosa voglia dire questa espressione.
Ieri come oggi, sembra indicare che la cooperazione non riesce ad esprimere una rappresentanza politica in sede istituzionale in linea col proprio peso economico. Anche la costituzione dell’Alleanza Cooperativa Italiana sembra essere nata sotto questo stimolo, dopo che le PMI, industriali e commerciali, avevano dato vita a Rete Imprese Italia. Fortunatamente però il progetto dell’ACI ha imboccato un’altra strada decisamente più interessante, mirante alla riunificazione delle imprese cooperative italiane sotto una sola sigla.
Resta sicuramente diffusa l’idea che la rappresentanza politica si giustifichi (anche in termini di contributi associativi) in funzione della propria capacità di lobby.
La domanda che voglio fare è: possiamo veramente pensare che per fare crescere questo nano politico sia sufficiente un semplice rafforzamento del suo potere di lobby?
La mia risposta è negativa. Se la cooperazione vuole crescere nell’agire collettivo di questo paese deve avere un progetto culturale. L’attuale dimensione del movimento non ci permette di puntare alla conquista dell’egemonia culturale (che grande intuizione ebbe Gramsci con questo termine), ma se non ci si preoccupa di definire dove la cooperazione voglia andare, riducendo tutto in termine di crescita del giro d’affari, credo sia un progetto terribilmente miope.
Guardiamo un attimo cosa è successo sull’altra sponda. A partire dagli anni ’70 si è sviluppato un vero e proprio progetto culturale (questo sì egemone) riassumibile nel termine di “neo-liberismo”.
C’è qualcuno che pensa che il neo-liberismo abbia assunto la posizione dominate che occupa perché il movimento delle imprese che rappresenta ha saputo meglio esercitare il potere di lobby? Chi lo pensasse, questa è la mia opinione, è decisamente fuori strada!
L’ascesa del pensiero neo-liberista è stata una delle più grandi (ed onerose) imprese culturali per affermare come scienza quella che è uno dei più incredibili assiomi ideologici: la capacità del mercato di autoregolarsi. Questo assioma è ancora talmente importante, tanto da riuscire vittorioso sull’interpretazione della crisi che stiamo attraversando, dopo esserne stato una causa fondamentale!
Se si riesce a fare entrare nella testa delle persone che il mercato è un meccanismo prefetto di allocazione delle risorse, allora ogni crisi non può che essere il frutto di interferenze esterne. In questo caso chi meglio dei politici, spesso a causa di comportamenti meschini, può essere incolpato e messo alla berlina?
A chi avesse dei dubbi su questo progetto culturale conservatore potrei suggerire numerose letture, ma mi limito a segnalare: Susan George – L’America in pugno – 2008 – Feltrinelli, facile da leggere anche sotto l’ombrellone.
Mi sento di affermare, ancorché più per via intuitiva che documentale, che la crisi attuale è la prima che colpisce i paesi occidentali dalla fine del ‘700 in cui non è stata messa in discussione la distribuzione dei diritti di proprietà. Se escludiamo i pochi (e screditati) sostenitori della proprietà pubblica, non c’è nessun movimento che abbia agito in questa direzione; allora è evidente che i movimenti di contestazione (Los Indignados, Occupy Wall Street, ecc.) non siano in grado di andare oltre all’indignazione morale e quindi ad esaurirsi in tempi brevi, come di fatto è successo.
Ovviamente il sistema economico di mercato ha grandissimi meriti, in primis, concentrare la volontà di milioni di persone in un indicatore di enorme efficienza: il sistema dei prezzi. Ma nessuno è riuscito a dimostrare che un sistema dei prezzi funzionate sia compatibile solamente con l’attuale sistema di distribuzione dei diritti di proprietà.
Molti studi pubblicati negli ultimi anni hanno illustrato l’incredibile livello di diseguaglianza di reddito e di ricchezza, ma se non si affronta la questione della distribuzione dei diritti di proprietà si ricade di nuovo nel vicolo cieco dell’indignazione morale.
L’art. 42 della nostra Costituzione recita: “La proprietà è pubblica o privata”. In sede di discussione, da più parti, si voleva introdurre il concetto di ‘proprietà cooperativa’, ma il relatore Ghedini respinse ogni emendamento osservando che “non si può ancora dire che la cooperazione rappresenti un tertium genus nel campo dei diritti di proprietà”. 
Avere un progetto culturale in grado di riproporre la questione della “proprietà cooperativa” non potrebbe essere un buon punto di partenza per cessare di essere “un nano politico”?

Antonio Zanotti


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